Così l’eurotassa sulle grandi navi «affossa» i porti del Mezzogiorno

mmaginate una grande nave da carico che arriva da Oriente. India, Singapore, Shangai. Attraversando il canale di Suez, con destinazione Anversa o Rott

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mmaginate una grande nave da carico che arriva da Oriente. India, Singapore, Shangai. Attraversando il canale di Suez, con destinazione Anversa o Rotterdam, è facile immaginare una tappa intermedia. Cioè, come suol dirsi, un porto di transhipment (trasbordo) dove è possibile l’ormeggio di grandi imbarcazioni porta-carichi. E la scelta, naturalmente, ricade quasi sempre su un approdo euro-mediterraneo: Grecia, Malta, Spagna o Italia. Con particolare riferimento, in quest’ultimo caso, ai porti del Mezzogiorno: Gioia Tauro, primo fra tutti, ma anche Cagliari e Taranto.

A mettersi d’intralcio sulla rotta della nostra nave arriva, però, una nuova tassa europea sulle emissioni, inserita nel pacchetto «Fit for 55». Senza eccedere nei tecnicismi si tratta di una modifica dell’«Emission Trading Scheme» che colpisce le navi superiori alle 5mila tonnellate di stazza lorda, cioè le maxi-navi portacontainer. Il calcolo del balzello è piuttosto problematico e coinvolge le miglia percorse e, naturalmente, le emissioni dell’imbarcazione stessa ma con una precisazione decisiva: il pagamento è del 100% se la tratta inizia e termina in porti europei, ma risulta dimezzata se partenza o arrivo sono fuori dall’unione continentale.

E dunque, torniamo alla nostra nave. Se, passato lo stretto, fa tappa a Gioia Tauro o a Valencia e, di là, riprende per Anversa ecco che, avendo toccato due porti europei, il pagamento sarà del 100%. Se invece, anziché un approdo italiano o spagnolo, ne sceglie uno nordafricano, ad esempio Tangeri (in Marocco) o Port Said (in Egitto) la tassa si dimezza, perché il porto europeo è solo uno. Quindi, il 50%. Lo stesso discorso si applica anche quando la destinazione finale non è in Ue. In un viaggio da Singapore a New York, ad esempio, una tappa nel Pireo comporterebbe comunque l’attivazione della tassa, per quanto dimezzata. Passare da Tangeri, escludendo completamente l’Europa, sottrarrebbe la nave dall’incombenza.

È evidente come questo meccanismo penalizzi fatalmente tutti i porti del Sud Europa. E qualcuno grida già allo scandalo, ad una sorta di «secessione portuale dei ricchi» che risparmia chi è già commercialmente avanti (il Nord del continente) e taglia le ali a quanti, emblematico il caso del porto di Taranto, sono in piena corsa, anche infrastrutturale, per intercettare quei traffici. Merci al Nord, migranti al Sud in una perversa (e squilibrata) declinazione dell’idea di libera circolazione di manufatti e persone. Accanto a questo, poi, si innesca un altro tipo di riflessione, che impone di trovare un punto di equilibrio fra le politiche di tutela ambientale e quelle di sviluppo infrastrutturale. Vale per la mobilità su terra ma pure per i traffici marittimi. Anche perché, di là dalle considerazioni teoriche, qui «balla» la carne viva dell’attività portuale dell’Europa mediterranea: posti di lavoro, investimenti, attrazione dei traffici. E se per Gioia Tauro – forse spingendo un po’ sull’elemento sensazionalistico – si paventano già rischi di chiusura, altre realtà, meno coinvolte, non hanno comunque tardato a segnalare il problema.

Latitano, purtroppo, le soluzioni percorribili o almeno quelle che consentirebbero di salvare, al contempo, la capra dell’ecologia e il cavolo dello sviluppo. Un’idea potrebbe essere quella di coinvolgere nella tassazione anche Tangeri e Port Said, riportando tutti allo stesso livello nella griglia delle possibilità (in fondo, il mare è un bene comune). Ma l’idea di una adesione nordafricana su base puramente volontaria appare utopistico. Altrettanto complicato sarebbe intervenire sulla «sostenibilità» delle grandi navi perché i motori elettrici, finora sviluppati, non sono abbastanza potenti e tutte le alternative, come il gas naturale liquefatto, restano inquinanti. Dunque, più ragionevole appare la prospettiva di ritardare la misura o, quanto meno, di escludere da essa tutte le realtà che ne subirebbero danni fatali. Precondizione indispensabile è che i porti coinvolti facciano quadrato. Si è a lungo parlato di un’identità mediterranea in seno a quella europea e, con essa, anche di un intreccio di interessi comuni da rivendicare. Forse è arrivato il momento di battere i pugni sul tavolo.

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