Da Maradona a Baggio: Messi, il suo popolo, i suoi “10”

Una bandiera argentina stesa sull’asfalto; sopra, una maglietta dell’albiceleste, una candela accesa, e una foto di lui, il 10 di un popolo (anzi, due

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Una bandiera argentina stesa sull’asfalto; sopra, una maglietta dell’albiceleste, una candela accesa, e una foto di lui, il 10 di un popolo (anzi, due, quello argentino e quello napoletano), di una nazione, dell’intera storia del football.

Campeggiava così, quest’altare profano, ieri sera, nello slargo antistante il Lusail Stadium: un tributo al 10 di allora e di sempre (Diego Armando Maradona), una preghiera al 10 di oggi, Lionel Messi, che ora è a un passo dal sedere su quello stesso trono mondiale che Dieguito conquistò (con piedi e mani, direbbero gli inglesi…) nel 1986 in Messico, e che la Pulce può ora far suo domenica, alle 16 italiane, nello stesso stadio.

Un’attesa “Messianica”

Attesa ‘Messianica’ (che contiene in sé anche ‘Messicana’ e allora il gioco è fatto…), viene da dire, quella di un popolo e del suo profeta calcistico. La metropolitana che porta allo stadio è un’onda biancoceleste (solo occasionalmente spruzzata dal biancorossoblu croato), e basta far due chiacchiere con qualche tifoso arrivato da Buenos Aires e dintorni per capire il livello dell’attesa, della passione, dell’amore. «Siete italiani? Anche noi, come tutti del resto in Argentina, no?», ci sorride un padre di famiglia con cui cordialmente sgomitiamo per un posto sul vagone della metro, elegante neanche fosse un salotto di fine Ottocento; con lui, appunto, moglie e due figli poco meno che adolescenti. Lui originario di Bari, lei di Firenze, un loro altro amico sempre dal Sud e che ha amici a Roma, per la precisione a Ostia.

Le voci dei tifosi

«Quanti siamo noi argentini qui a Doha? Almeno 40mila in arrivo dal nostro Paese, altri 10mila almeno dal resto d’Europa», ci dice convinto della bontà di somme (tante) e (poche) sottrazioni. Ancora quattro chiacchiere tra tifo e calcio poi – vista la fragilità dell’economia argentina e la crisi diffusa e generale – ci permettiamo di chiedere: «Ma quanto vi costa questa trasferta, tra viaggio, alloggio e biglietti per le partite?»; il sorriso si allarga e si distende quasi a chiedere un’umana comprensione: «Per una famiglia come la nostra siamo sui 10mila dollari in totale, se sei da solo magari riesci con la metà. Cosa ci spinge? La passione, l’amore. Noi abbiamo di volta in volta comprato i biglietti dagli ottavi fino a stasera, alla semifinale con la Croazia, ed è stato un trionfo! Adesso però rientriamo a Buenos Aires…», ma a guardare lo sguardo languido dei due ragazzini mi sa che quel papà è pronto a un’altra pazzia per regalarsi e regalare loro un’altra notte di emozioni, miti, e (forse) trionfo, nel segno di due 10 che hanno incantato un popolo, e col secondo che ora vuole – come il primo – sbalordire il mondo….

(Reuters)

Un campione maturo

Incanta Leo, tra dribbling, piroette, tocchi semplici eppure illuminanti. Com’è lontano l’asso spaurito che nel 2014, in Brasile, solo sfiorò la Coppa del Mondo, lasciandosela soffiare dalla Germania al termine di un Mondiale fatto di prodezze, tensioni, stress, conati di vomito, tanto da rendere per lo meno discutibile, in quell’occasione, la sua nomina a miglior giocatore del torneo. Quello di Qatar2022 è un campione maturo, risolto e risoluto, che sa al limite anche quando trascinare, e quando invece potersi lasciar trasportare dal resto della squadra. E dire che con i croati dopo appena un quarto d’ora s’era messo le mani prima dietro la coscia sinistra, poi sulla faccia, poi aveva guardato verso la panchina, verso il ct Scaloni, di certo a chiedere conforto e rassicurazioni, forse anche la sostituzione. Poi ha stretto i denti, è andato avanti ed è stato quel che è stato. Ma in quel preciso istante almeno per noi italiani s’è trasfigurato in un altro 10, uno dei nostri più cari e amati: Roberto Baggio, che nella semifinale di Usa ’94 incantò con una doppietta alla Bulgaria, prima di fermarsi per un guaio muscolare simile, e anche nel suo caso alla sua gamba migliore (la destra). Un infortunio che rese drammatica la vigilia della finale contro il Brasile a Pasadena, e a dir poco sofferta e sotto tono la prestazione in campo del Divin Codino, fino poi all’amaro epilogo con il famigerato rigore conclusivo fallito.

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