La Corte Ue boccia (a metà) i sacchetti monouso italiani

Bocciatura (a metà) della Corte di Giustizia Ue della normativa con cui l'Italia ha vietato nel 2013 la commercializzazione di sacchetti monouso fabbr

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Bocciatura (a metà) della Corte di Giustizia Ue della normativa con cui l’Italia ha vietato nel 2013 la commercializzazione di sacchetti monouso fabbricati con materiali non biodegradabili e non compostabili.

La Corte di giustizia dell'Ue ha bocciato il divieto italiano dei sacchetti monouso © ANSA

Banalmente, i sacchetti della spesa di una volta. L’intento – si legge fra le righe della sentenza – è infatti lodevole, poiché mira alla protezione dell’ambiente, ma “il diritto dell’Unione si oppone a una normativa nazionale” di questo tipo. Dunque va integrata.
Ma facciamo un passo indietro. “Papier Mettler – ricostruisce la Corte – è un’azienda operante nella distribuzione di imballaggi in carta e plastica e ha concentrato la sua attività nello sviluppo e nella produzione d’imballaggi in polietilene e, in particolare, di sacchetti di plastica come i sacchetti della spesa”. Ma il 18 marzo del 2013 il ministero dell’Ambiente e il ministero dello Sviluppo economico hanno adottato il decreto n.73, il quale vieta la fabbricazione e la commercializzazione di borse di plastica destinate al ritiro delle merci che non rispondano a determinate caratteristiche tecniche. Papier Mettler si rivolge allora al Tar del Lazio per chiedere l’annullamento del decreto e il Tar, a sua volta, chiede alla Corte Ue se una tale disposizione nazionale possa contenere norme tecniche “più restrittive” di quelle previste dal diritto dell’Unione (direttiva 94/62).
I ministeri interessati, sottolinea la Corte, hanno spiegato che è “apparso necessario” promuovere l’uso di borse di plastica “biodegradabili e compostabili” (nonché di borse riutilizzabili) per contrastare l’abitudine dei consumatori italiani “di utilizzare sacchetti di plastica usa e getta per la raccolta dei rifiuti organici”. Che poi vanno spesso in discarica. Si arriva così alla sentenza odierna. La legge italiana, dunque, ha violato il diritto Ue. Però c’è un però. “Tale regolamentazione – si legge ancora nel comunicato – può tuttavia essere giustificata dall’obiettivo di garantire un livello più elevato di protezione dell’ambiente, a condizione che essa sia basata su nuove prove scientifiche relative alla protezione dell’ambiente emerse successivamente all’adozione di una norma eurounitaria, e a condizione che lo Stato comunichi alla Commissione le misure previste e i motivi della loro adozione”.
La porta resta quindi aperta. Inoltre, trattandosi di un “rinvio pregiudiziale” – che consente ai giudici degli Stati membri d’interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione – la Corte “non risolve la controversia”.
Spetta infatti “al giudice nazionale” risolvere la causa conformemente, però, alla decisione della Corte. Tale decisione, poi, vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile. 

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