Puglia, l’odissea delle carceri: fra droga, sovraffollamento e muffe

I telefoni gsm con cui i supeboss della criminalità organizzata davano ordini da dietro le sbarre? Preistoria. Perché non solo nelle carceri pugliesi

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I telefoni gsm con cui i supeboss della criminalità organizzata davano ordini da dietro le sbarre? Preistoria. Perché non solo nelle carceri pugliesi girano smartphone di ultima generazione (e a dirla tutta anche droga di ogni genere e macchinari per i tatuaggi) ma dalle stanze del penitenziario leccese è stato persino girato e pubblicato un video sulla piattaforma social TikTok. E questo è molto di più che comunicare con l’esterno. Questo significa sfidare e beffarsi dello Stato.

Le organizzazioni sindacali degli agenti di polizia penitenziaria denunciano da anni situazioni insostenibili. E non si tratta solo di rimarcare l’esiguità del personale rispetto alla popolazione carceraria, che peraltro sono anch’essi in sovraffollamento rispetto alla capienza delle carceri, ma del venir meno di una soglia di sicurezza adeguata e del vivere quotidianamente in ambienti tutt’altro che salubri, tanto per gli agenti tanto per i detenuti.

A Bari, da qualche settimana, in una cella destinata a due persone, è stata messa la quarta branda, e giacché non c’era spazio, è stata posizionata davanti alla porta del bagno.

Gli agenti in servizio non se la passano certo meglio dei detenuti. I turni raggiungono quasi quotidianamente le 12 e in alcuni casi le 15 ore consecutive, e da contratto dovrebbero essere sei. L’età media va dai 50 ai 53 anni (e sorvegliano tra i 100 e 200 detenuti), alcuni hanno un monte ore accumulato di congedo ordinario, cioè le ferie, tra gli 80 e i 150 giorni rivenienti dagli ultimi tre anni. Corsi di aggiornamento – le denunce dal sindacato Osapp si sono sprecate negli ultimi anni – neanche a parlarne, visite mediche previste dalla legge men che meno. Al poligono di tiro la gran parte dei poliziotti non viene mandata da 15 anni, mentre la legge prevede un minimo di allenamento ogni sei mesi e la perdita dell’abilitazione all’uso in caso non si vada al poligono per più di un anno.

Le foto documentano le aree destinate a chi nel carcere ci lavora: stanze piene di polvere, finestre divelte, letti e materassi logori, tende strappate, muffa sulle pareti e ruggine nei bagni, persino nella doccia. Un degrado oltre ogni immaginazione nascosto troppo a lungo.

«I penitenziari pugliesi sono luoghi di spaccio e aggregazione criminale. Va detto», esordisce senza mezzi termini Ruggiero Damato, segretario regionale dell’Osapp. «Lecce sta per diventare una polveriera esattamente come Foggia e Trani. E anche a Taranto la situazione è fuori controllo. Non passa giorno che non vengano sequestrati telefonini e droga. E non passa giorno che non si registrino aggressioni, minacce, lanci di oggetti dai detenuti contro gli agenti, i quali ricevono continuamente offese e sputi. Nella migliore delle ipotesi schiaffi». Ma Damato punta il dito anche contro la gestione amministrativa: «Si dice che non ci sono soldi, poi li buttano producendo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere camicie bianche con il vecchio stemma del Corpo, quindi inutilizzabili. E noi non abbiamo cambi di divise o di scarpe da dieci anni. Qualcuno compra degli anfibi per lavorare perché i vecchi sono logori ma teoricamente gli si potrebbe fare rapporto perché si dovrebbero indossare solo quelli in dotazione. Dal Governo hanno annunciato l’arrivo di caschi, giubbotti antiproiettili e guanti antitaglio. Bene. Peccato che siano solo 5mila e gli agenti in Italia sono 36mila».

Ma come entrano droga, smartphone e materiale di vario genere in carcere? In due modi, e in entrambi i casi sfruttando le falle nella sicurezza. Caso numero uno: vengono lanciate direttamente dal muro di cinta, perché nei nostri penitenziari mancano i sistemi antiscavalcamento e antintrusione intorno al perimetro. Si utilizzano in questo caso i detenuti lavoratori che si trovano nelle aree esterne. La sorveglianza si elude facilmente: o nella consapevolezza che in un dato momento non ci sia per carenza di personale impegnato altrove oppure creando appositamente disordini così da attirare altrove gli agenti. E tutto passa all’interno. Caso numero due: sfruttando la stessa vigilanza insufficiente si lancia tutto dall’alto. Con un drone. E questo mentre l’Amministrazione penitenziaria – la denuncia di alcuni agenti in servizio – a furia di far di conto spesso non sostituisce gli impianti di videosorveglianza che si rompono, non provvede all’automatizzazione delle chiusure di celle e cancelli (che vengono ancora aperti e chiusi a mano), non procede con la manutenzione dei mezzi di trasporto dei detenuti: hanno una media di 500mila chilometri e non è raro che scoppino le gomme.

«Noi non vogliamo il taser, non risolverebbe il problema», dice Giuseppe Andrisano della Uilpa, a proposito del fatto che per ragioni di sicurezza gli agenti entrano nelle aree detentive disarmati e poi spesso sono vittime di gravi aggressioni. Qualcuno ci ha perso un occhio. «Ma la situazione è insostenibile. Servono nuove strutture e una massiccia campagna di arruolamento. C’è insofferenza nel personale e tra i detenuti perché gli ambienti sono inidonei a viverci».

Capita quotidianamente che un solo agente, per un intero turno si occupi di due sezioni. In soldoni: ogni sezione ha 22 celle detentive che, peraltro, restano aperte per 12 ore al giorno per via della cosiddetta “vigilanza dinamica”. In ogni cella ci sono tre o quattro detenuti, che quindi girano tutti insieme nei corridoi. Fare una spedizione punitiva o far entrare un pacco è semplicissimo: si chiama quell’unico agente dall’altro lato del corridoio. Poi c’è la questione dei detenuti con problemi psichiatrici. Le Rems sono un miraggio e la gran parte di loro viene messa con i detenuti comuni. «A Lecce – urla Damato – due di loro sono arrivati a mangiarsi i propri escrementi».

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