Puglia, addio al blocco: la pesca del riccio riparte a febbraio

La Regione non si costituirà davanti alla Corte costituzionale per difendere la legge che vieta per tre anni la pesca dei ricci. Lo ha deciso lunedì l

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La Regione non si costituirà davanti alla Corte costituzionale per difendere la legge che vieta per tre anni la pesca dei ricci. Lo ha deciso lunedì la giunta, sulla base di una istruttoria che conferma le perplessità avanzate dai ministeri e che a giugno hanno portato Palazzo Chigi a decidere l’impugnazione.

Il risultato è che lo stop al riccio di mare, regolarmente vigente dal 5 maggio e fino al 2026 (ma senza sanzioni, perché la giunta non ha mai emanato il regolamento), verrà meno una volta che la Consulta dichiarerà la legge incostituzionale. Il testo fu approvato all’unanimità in aprile (con la sola astensione di Fabiano Amati e Donato Pentassuglia), nonostante già il servizio legislativo del Consiglio regionale avesse avanzato osservazioni critiche sulla proposta presentata da Paolo Pagliaro (La Puglia domani, lista civica di centrodestra). I tempi della pronuncia da parte della Consulta non sono prevedibili ma – in assenza di costituzione da parte della Puglia – saranno abbastanza rapidi: è difficile che si vada oltre gennaio-febbraio prossimo.

La conseguenza sarà il venir meno del divieto di pesca del riccio, giusto in tempo per la ripresa dell’attività dopo l’inverno. Lo stop era stato imposto con ottime intenzioni: preservare una specie sottoposta ad enorme sfruttamento. Ma i ricci non sono scomparsi dalle pescherie, spostando il consumo su quelli pescati dalle marinerie di altre regioni (o di altri Paesi anche extra-Ue: Albania, Croazia, Grecia), con un aumento vertiginoso dei prezzi di vendita (nei ristoranti si arriva anche a 3 euro a pezzo). E senza che la Regione abbia mai erogato i sussidi promessi ai pescatori pugliesi danneggiati dal fermo.

Le osservazioni critiche alla norma pugliese sono arrivate da vari ministeri (Ambiente, Politiche del mare, Esteri). Ma il nodo giuridico è abbastanza semplice: il mare che bagna la Puglia non è il mare della Regione, perché non esiste «un mare territoriale regionale, appartenente alla Regione Puglia, quale ambito entro il quale la stessa Regione sarebbe abilitata ad esercitare la propria potestà normativa». Non esistendo confini in mare, non è possibile applicare disposizioni diverse da quelle dettate dallo Stato. «La nozione di mare territoriale – scrive il ministero per le Politiche del mare – è accolta dal diritto internazionale per regolare i rapporti tra Stati, ma non potrebbe essere invocata in ambito interno per una segmentazione della relativa fascia marittima tra plurime autorità regionali». La Farnesina ha poi fatto emergere altre due incongruenza gravi. La prima è che il divieto di pesca non può comprendere il divieto di esportazione (sarebbe contrario al diritto europeo). La seconda è che il divieto, per come è stata scritta la norma, non è comunque applicabile alle «acque interne» (il golfo di Taranto, buona parte del golfo di Manfredonia e le acque tra le Isole Tremiti e il Gargano) oltre che alle aree portuali: «A meno che non esista nell’ordinamento regionale pugliese una definizione autonoma di “mare territoriale della Puglia” (che non c’è, ndr) – scrive il ministero degli Esteri -, la legge regionale di cui si tratta non sembra applicarsi quindi a tutte le porzioni di mare più prossime alla costa, incluse le suddette rilevanti porzioni di mare ricomprese nell’ambito delle acque interne italiane».

L’assessorato all’Agricoltura (competente sulla pesca) non ha fornito indicazioni in merito alla questione all’avvocatura regionale. Resta dunque valida la disamina fatta nei mesi scorsi. Negli uffici dell’assessorato, sostanzialmente, allargano le braccia. Come a dire: sapevano tutti benissimo che sarebbe finita così.

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