L’alfabeto politico a un passo dalle urne

AGENDA. La più celebre fra tutte è quella che non esiste, per ammissione dello stesso diretto interessato. E cioè l’agenda Draghi. Il che la dice lu

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Oggi, Sabato 4 Settembre ore 17, torna PIAZZA DEL POPOLO 11ª puntata

L’alfabeto politico a un passo dalle urne

AGENDA. La più celebre fra tutte è quella che non esiste, per ammissione dello stesso diretto interessato. E cioè l’agenda Draghi. Il che la dice lunga sulla raffinatissima capacità italica di discutere del nulla fino allo sfinimento. Forse per reazione o per compensazione, nel frattempo, di agende ne sono spuntate a decine. Una per ogni partito, compresi quelli che vanno in coalizione e quindi dovrebbero averne una sola. Sembra ormai di essere in una cartoleria. Ciò che le accomuna, comunque, è il contenere ricette costosissime, confuse e spalmate su un periodo di tempo, cinque anni, che in politica è una specie di regno dell’utopia.

BERLUSCONI. Ha messo un piede su TikTok e ha sbaragliato tutti con numeri da record, facendo apparire gli altri, trent’anni più giovani, come dei pinguini nel deserto. È una sciocchezza che però dà la cifra del suo tocco da frontman. L’età e la storia gli remano contro: sono gli anni del sovranismo, la concorrenza al centro si è moltiplicata, la storia dell’imprenditore che si è fatto da solo tra tv e calcio, al tempo di Elon Musk, non tiene più. I miti abitano altrove. Ma avesse qualche primavera di meno alla guida del centrodestra ci sarebbe sempre lui. Sicuro.

CONTE. È sopravvissuto a un governo con la Lega, uno col Pd, una pandemia e una scissione. Ha fatto cadere l’esecutivo Draghi e ha rilanciato il Movimento 5 Stelle di cui, ora, tutti hanno paura. Se pensiamo che c’è chi non è sopravvissuto a un referendum, la resilienza di Conte è impressionante. Il reddito di cittadinanza aiuta, non c’è dubbio, ma ridurre tutto alle analisi cispadane sul voto degli straccioni del Sud fa un po’ ridere. E lo rafforza. Ancora.

DISSENSO. Fuori dai blocchi canonici c’è un arcipelago politico che spera nel 3% e spara a palle quadre su tutto: invio delle armi, caro-bollette, politiche sociali. Da Italexit di Gianluigi Paragone a Unione Popolare di Luigi De Magistris, passando per Italia sovrana e popolare di Marco Rizzo. Difficile che qualcuno riesca a entrare ma soltanto perché si vota il 25 settembre e non il 25 dicembre. Dopo un autunno come quello che ci aspetta è probabile che bisognerà riscrivere la mappa politica dell’Italia. Nuove forze di opposizione crescono.

ENERGIA. Inutile girarci intorno: il caro-bollette, e l’inflazione tutta, sono la vera sfida che attenderà al varco il nuovo esecutivo. E sarà difficile salvare gli italiani senza irritare l’Europa (il debito) o derogando all’anti-putinismo di cui Roma si è vestita dal primo giorno di guerra (riprendere il gas russo): due strade complicate da percorrere, per mille ragioni, ma le alternative non sono chiare. E la gente non ha alcuna voglia di mettersi lì a cavillare. Se in queste settimane vi siete divertiti (le perversioni esistono e sono lecite), state tranquilli: la bagarre da campagna elettorale ricomincerà a breve.

FEDERALISMO RAFFORZATO. Pensavamo di essercelo lasciato alle spalle dopo gli anni pandemici del «nessuno si salva da solo». E invece è tornato. Non solo, è pure cresciuto. L’autonomia non è più un tema politico ma geografico. Tutto il Nord, di destra e di sinistra, è tornato a chiedere spazi di auto-gestione e la possibilità che li ottenga è alta, considerato che il Sud, da nefasta tradizione, fatica sempre ad alzare barricate identitarie. Come nel gioco dell’oca siamo tornati alla casella di partenza: c’è la crisi? Faccio da me. Ma se giù non si cammina, anche su si rischia il blocco. Impossibile farglielo capire.

GUERRA. La complessità di un conflitto non è roba da alfabeti. Una cosa però va detta: finalmente gli italiani – di solito piuttosto refrattari alla geopolitica (che, nel nostro dibattito, è un po’ come la matematica al liceo classico) – hanno compreso quanto pesino sulla loro vita quotidiana le ricadute di ciò che accade fuori dai confini nazionali. Una lezione amara, anzi tragica, che cade nel momento peggiore. Ma pur sempre una lezione.

LETTA. Il pulmino elettrico che lo porta al comizio si ferma. Lui scende, ripiega su un’auto. Arriva sul palco e sentenzia: «L’elettrico è il futuro». Ci sono periodi in cui non gira proprio e si vede. Ma Letta ci ha messo del suo rispolverando la mitica vocazione maggioritaria nel momento in cui il Pd è più debole. Senza alleati pesanti (vuole recuperarli dopo?) e a mani nude contro i conservatori col vento della storia in poppa. Di più, con una campagna durissima da dentro o fuori: «Scegli». La sensazione è che gli italiani sceglieranno.

MELONI. Questa volta il boccino ce l’ha lei. Berlusconi si arrangia, Salvini pedala, lei va in Ferrari. Ma dove? È arrivata a questo punto da oppositrice irriducibile a tutto e tutti, non ultimo Draghi. Ora la chiamano «la Draghetta» per le professioni di atlantismo e l’attenzione ai conti pubblici. Forse è un trucco, forse no. Bruxelles, Washington e i mercati non sembrano affatto tranquilli. Gli elettori pare di sì. Ma con le bollette in arrivo lo saranno molto meno. E di certo non la votano per sentirsi dire che scostamenti non se ne possono fare. Si sale in fretta, ma si cade anche in fretta.

ODIO. E niente, non ce l’hanno fatta. Neanche questa volta è stato possibile assistere a un confronto concreto e comprensibile sui temi – che pure ci sono – a favor di cittadino. Accuse di nostalgismo fascista, di vetero-comunismo, di impresentabilità. Misteriosi dossier americani senza indicazioni chiare e code di veleni su «pupazzi prezzolati» senza nome e cognome. Pura bagarre. La «mostrificazione» dell’avversario o, peggio ancora, dell’altro da sé, è la cifra del dibattito italico a favor di telecamera. Non ne usciremo mai.

PANDEMIA. Fino a poco tempo fa non si discuteva d’altro. Ora sembra che tutti l’abbiano lasciata a casa insieme alle mascherine. Parlarne non conviene a nessuno, né in un senso né in un altro, e dunque si fa finta che il problema non esista. C’è da sperare che sia così. Diversamente, in un Paese piegato dall’inflazione e con i venti di guerra dietro casa, potrebbe essere complicato evocare nuove restrizioni o far ripartire la campagna vaccinale con obblighi inclusi. Per ora vince il silenzio che, in campagna elettorale, fa sempre tanto rumore.

RENZI E CALENDA. La strana coppia che si era tanto odiata è la vera novità politica di questa tornata. Poche stupidaggini su fascismo e antifascismo, contenuti tecnici, difesa dichiarata dello status quo (Europa, Nato e compagnia). I voti, probabilmente, arriveranno. Restano i dubbi su Draghi che loro continuano a tirare per la giacca nonostante tutti i suoi «niet» (ci perdonerà…) ma anche sulle strategie future. Se dovesse profilarsi la possibilità di creare un’ammucchiata di centrosinistra, 5 stelle compresi, Renzi non ci metterà molto a strappare portandosi dietro un bel po’ di parlamentari e lasciando Calenda al palo con il suo oltranzismo anti-stelle. E la strana coppia tornerà ad odiarsi.

SALVINI. Ha fatto una campagna elettorale molto lineare sui suoi temi classici e con un finale in crescendo su bollette e sanzioni. Tre anni fa sarebbe arrivato al 40%, ma ora l’impressione è che abbia perso il tocco magico. Ne sono successe tante da quell’estate al Papeete del 2019, quando staccò la spina al governo gialloverde e spianò la strada al Pd. Dall’uscita dall’Euro al governo con Draghi ne passa di strada. E ne passano di voti. Su Putin ha cambiato idea, si è pentito del Green Pass. Che confusione. L’impressione è che i sovranisti duri e puri stiano guardando altrove, così come pure, per motivi opposti, i leghisti classici alla Luca Zaia. L’obiettivo, non scontato, è restare sopra il 10%. Scendere al di sotto sarebbe un disastro.

TEMPO. Dopo il Covid, i lockdown e la guerra in Ucraina ecco un’altra cosa da raccontare ai nipoti (sperando restino svegli): la campagna elettorale più anomala di sempre. Anomala perché concentrata in una finestra temporale strettissima e coincidente con il periodo agostano e l’inizio di settembre, notoriamente settimane non proprio elettive per la politica. Un bene? Un male? Difficile dirlo. La fretta non è mai un buona cosa né per chi si propone né per chi è chiamato a scegliere. Ma il sospetto è che, nel 2023, avremmo assistito a un balletto tendenzialmente simile solo più dilatato. Forse ce la siamo cavata, tutto sommato, a buon mercato.

UNIONE EUROPEA. Almeno fra i quattro principali competitor non c’è nessuno che affermi di voler abbandonare l’euro o uscire dall’unione continentale. Fino a qualche tempo fa lo dicevano, o lo lasciavano intendere, tanti fra gli odierni protagonisti. Per l’Europa, che pure fa di tutto per ringalluzzire i suoi critici (vedi le ultime affermazioni della Von der Leyen), è di fatto una vittoria. Per gli interessati meno. Cambiare idea è segno di intelligenza, usare il dissenso come un taxi, per poi scaricarlo, anche, seppur in chiave cinica. Ma, dal punto di vista di un elettore, non è il massimo. Figura migliore la fa chi europeista lo è sempre stato.

VOTO. È convinzione comune che la partita sia chiusa ma fingere di aver spiato il futuro nella palla di vetro non è mai un buon esercizio. Usciamo da una legislatura di quelle memorabili in cui è successo tutto e il suo contrario e non è affatto detto che la prossima scivolerà in cavalleria. Il Paese si ritroverà comunque spaccato in due nonché aperto, come da tempo accade, a qualunque tipo di rimescolamento o di calata dall’alto. È l’Italia bellezza, niente è mai come sembra.

 

 

 

fonte gazzettadelmezzogiorno

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