23 maggio 1992, il giorno in cui la mafia uccise Giovanni Falcone

 Il 23 maggio del 1992 era un sabato afoso da primavera inoltrata, che suonava quasi come un assaggio d’estate. Alle 17 e 57 un terrificante boato s

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 Il 23 maggio del 1992 era un sabato afoso da primavera inoltrata, che suonava quasi come un assaggio d’estate. Alle 17 e 57 un terrificante boato si udì dall’autostrada Trapani-Palermo, e il sole che fino a un attimo prima splendeva, venne d’un tratto offuscato da una nuvola di polvere scura che si andava alzando da terra verso il cielo. Un’esplosione spaventosa in un attimo aveva trasformato la strada nello scenario di un attentato di guerra. All’altezza dello svincolo per Capaci, un tratto di A29, che collegava la città con l’aeroporto di Punta Raisi, era saltato in aria: cancellato da 500 chili di tritolo piazzati in un canale di scolo.

Per consentire alle ambulanze di raggiungere il luogo del disastro, e prestare il prima possibile i primi soccorsi ai feriti, l’ingresso all’autostrada viene immediatamente chiuso al traffico. Si formarono lunghissime code mentre gli elicotteri presero a sorvolare la zona. Le auto procedevano a rilento, superate a tutta velocità dalle volanti della polizia, che sfrecciavano coi lampeggianti accesi e a sirene spiegate verso il luogo dell’agguato. L’asfalto sventrato si era aperto in una voragine grande alcune decine di metri.

L’auto della scorta che apriva il corteo blindato venne investita in pieno dall’onda d’urto, che la sbalzò a un centinaio di metri di distanza. Viaggiavano tre agenti, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, i cui corpi senza vita, imprigionati dalle lamiere, furono estratti dai vigili del fuoco che si fecero largo tra i rottami con fiamma ossidrica e cesoie. Sulla Croma bianca viaggiavano il magistrato Giovanni Falcone, che all’epoca aveva 53 anni, e la moglie Francesca Morvillo, feriti a morte. A soccorrerli era stato per primo un contadino, che stava dissodando un terreno verso il bordo dell’autostrada e si era precipitato. Falcone e sua moglie, caricati in ambulanza, spirarono poco dopo.

Il colpo d’occhio provato da chi giunse sul posto in quei tragici istanti, fu devastante: in frantumi erano andati persino i vetri delle ville attorno. Il boato era stato così forte da essere udito a chilometri e chilometri di distanza. In quello scenario da apocalisse, nel raggio di cinquecento metri, sparsi ovunque, si potevano trovare frammenti di lamiere e di asfalto volati via. Il terrorismo mafioso aveva sfidato a viso aperto il Paese, che, preso dallo sgomento, e sotto shock, fu invaso dalla sensazione di essere sotto attacco. Da quel momento nulla sarebbe stato più come prima: Cosa Nostra diventava una priorità, universalmente condivisa, da combattere.“La mafia – disse un giorno Giovanni Falcone – è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha avuto un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso, pensando a quella fine ha dichiarato: “Giovanni ripeteva che per sconfiggere la mafia è necessario combatterla sul campo culturale”. Per tener vivo il ricordo soprattutto nelle nuove generazioni,  la Rai ha previsto un vasto palinsesto dedicato alle stragi di Capaci e Via D’Amelio. E oggi, nel giorno del trentennale, tra le varie celebrazioni, i sindaci di tutta Italia, alle 17,57 si ritroveranno virtualmente insieme e tutti uniti nell’osservare un minuto di silenzio, ciascuno indossando la fascia tricolore. Simbolo dell’unità nazionale, dei valori costituzionali e dell’appartenenza responsabile che quelle morti hanno consolidato nel Paese.

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