Non tutte le morti sono uguali

Ho sempre pensato che la morte ci accomunasse. Unica è la morte anche se diverso è il modo di morire. Non si muore mai allo stesso modo. La morte, pro

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Ho sempre pensato che la morte ci accomunasse. Unica è la morte anche se diverso è il modo di morire. Non si muore mai allo stesso modo. La morte, proprio perché universale, è comunque un evento allo stesso tempo individuale e sociale. Per questo, anche se si muore soli, essa non è mai un evento solitario. Nella morte dell’altro ciascuno vede anticipata la propria morte. La morte ci accomuna. Per questa ragione, viene quasi spontaneo partecipare, anche se simbolicamente e a distanza, alla morte di qualcuno. Anche se estraneo.

In un libro di qualche anno fa, avente come argomento proprio il tema della morte, scrissi che anche se unica, ciascuno in fondo vive la propria morte. Viviamo la stessa morte ma in modo diverso. Ma una cosa è la diversità altra cosa è la disuguaglianza. Può sembrare strano dirlo, ma abbiamo tutti il diritto a morire con la stessa dignità. Sarebbe una grande beffa sbandierare l’uguaglianza in vita e poi praticare la disuguaglianza nel momento della morte. La morte, diceva il grande Totò, è una “livella”.

Da mesi siamo martellati ogni giorno con il bollettino di morti per Covid-19. Numeri che nascondono storie, biografie, mondi di vissuti e di volti. All’inizio eravamo impressionati.

Era un dolore che ci feriva e ci coinvolgeva. Si partecipava con silenzio e con sacro rispetto a questo che era diventato come un rito. A volte lo si faceva anche con una certa dose di pudicizia nei gesti e nelle parole, quasi a rallentare il normale corso della vita.

Era come se qualcuno di noi se ne andasse con coloro che la pandemia man mano cominciava a portare via. Non era importante se chi moriva lo conoscevano o che fosse della nostra città o della nostra regione. La morte non conosce geografia e nemmeno i confini ai quali siamo abituati. Entrava nelle nostre case anche da lontano, scavalcando muri e recinti. Come se fosse a due passi da noi. Nessuno più era estraneo. La morte stava ricreando quel filo di familiarità che prima di questo periodo si era come affievolito.
Poi col tempo, come spesso accade, abbiamo cominciato a farci l’abitudine. Ci siamo abituati alla morte e al fatto che qualcuno dovesse morire. Come se fosse normale.

Abbiamo rinchiuso i morti in un elenco anonimo, in un numero che se da un lato quantificava la portata dell’evento, dall’altro non diceva nulla su chi l’ha vissuto. E così gli estranei sono tornati ad essere estranei. E i morti, nuovi apolidi di città fantasma.

Se lo abbiamo fatto è perché dovevamo difenderci dalle morti altrui per non sentirci morti anche noi. Abituarsi alla morte è pericoloso, ma ci salva la vita da eventuali forme di disperazione e di depressione. E, allora, tutti a correre per cercare distrazioni. Per avere la certezza che quello che è capitato agli altri non è detto che capiterà anche a noi. E così si continua a vivere. O meglio a fuggire, facendo finta che, in fondo, la morte non esiste. O almeno per noi. O almeno per ora. Che muoiano gli altri!!!.

E invece, pessima abitudine abituarsi alla morte. E’ molto pericoloso. Non solo non è un modo per elaborarla, ma ancor più non lo è neanche per esorcizzarla. Al contrario, abituarsi alla morte è un modo radicale per disumanizzarla. E disumanizzare la morte è ancor più pericoloso che ignorarla o addirittura snobbarla.
Perché la morte è umana. Troppo umana come direbbe Nietzsche. Forse è più umana della stessa nascita. Proprio per questo, paradossalmente, la morte ci umanizza. Proprio per questa ragione è proibito disumanizzare la morte. Perché chi disumanizza la morte, prima o poi autorizza a provocarla. Lascia morire. E se non è lui provocarla, di certo si gira dall’altra parte se qualcuno gli muore accanto o di fronte. O se gli muore dentro. Non importa la distanza.

Ma non è la prima volta che ci siamo abituati alla morte di qualcuno. E’ un esperimento che abbiamo messo in pratica già altre volte, specialmente quando abbiamo assistito alle morti di centinaia di migranti affogati durante le attraversate nel nostro vicino Mediterraneo.
Molti di noi di fronte a quelle morti non solo hanno mostrato indifferenza, ma addirittura, quasi quasi, hanno ostentato uno strano senso di contentezza, se non addirittura, a volte, una certa approvazione e soddisfazione.

Nel suo libro Umano. inumano. Postumano. Le sfide del presente (Einaudi, 2020), il politologo e sociologo Marco Revelli, riporta alcuni commenti fatti sui social dopo il naufragio di 150 migranti avvenuto il 25 luglio del 2019. L’episodio, scrive Rovelli, in pochi minuti riceve una raffica di commenti atroci: plauso alla morte, invito al pasto dei pesci, sarcasmo, festeggiamento, incentivo all’accanimento e ai respingimenti, contumelie rivolte alle vittime e ai «buonisti» che vorrebbero salvarle.

Colpiscono alcuni post come i seguenti: «Peggio x loro». Qualcuno (con sul profilo l’immagine di lei su una sdraio al mare, bikini fucsia, a fianco la figlia piccola il cui viso campeggia anche sullo sfondo) scrive «Mangeranno i pesci». Un’altra scrive: «Potevano stare a casa loro buon appetito pesci». Altri post dicono: «Non è mio problema»…«Se non partono non muoiono». Rovelli nota che sono sette donne, alcune mamme, su otto post. “Nessun commento di compassione, cordoglio, pena: per trovarne uno bisognerà scorrere a lungo la lista”.Perché per certe morti ci emozioniamo, e per altre invece addirittura arriviamo a provare una certa soddisfazione? Forse, allora, è proprio vero se dico che non tutte le morti sono uguali. E non perché di fatto sia così. O perché “deve” essere così. No! Al contrario. Se ciò è accaduto, e ancora accade, è solo per scelta. Per puro cinismo. Per una scelta di disumanizzazione. Sì, abbiamo avuto l’arroganza di autoconferirci il potere di rendere disuguale ciò che invece la natura ha reso uguale: la morte. Non ci basta creare disuguaglianze in viga, ora anche nel morire!

Poi è arrivata la pandemia, che per un attimo ci ha fatto capire che quella morte che ha colpito quei naufraghi, ora è venuta per bussare alle porte della nostra casa. E se l’abbiamo presa seriamene in considerazione è più per paura di poter morire anche noi che per una ritrovata forma di altruismo.

Ma è durato poco. Continuare a farlo ci sarebbe costato troppo, emotivamente e socialmente. E, allora, ecco di nuovo il meccanismo dell’abitudine che ci ha fatti ripiombare nella beata indifferenza. Per cui continuiamo a lasciare morire certe categorie di persone che riteniamo non siano degne di dover morire come invece ci aspettiamo di morire noi.
E ci sta pure che, mentre noi siamo salvi, altri muoiano. Certo. non lo abbiamo deciso noi.

Invece, quello che possiamo decidere noi è non solo evitare che si possa vivere, ma che ancor più si possa morire senza dignità. Impedire cioè che, dopo che rischiamo di disumanizzare la vita, ci lasciamo prendere la mano e arrivare perfino a disumanizzare la morte.

E’questa la mia paura: che passato il virus del Covid-19, si possa diffondere un virus molto più pericoloso. Quello che Rovelli nel libro citato chiama “il virus del disumano”.

Risultato immagini per anziano morte
A cura di Michele Illiceto, Manfredonia 05 febbraio 2021

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