Per una chiesa vicina ai più deboli, in ricordo di Mons. D’Addario

“La memoria storica è la saggezza di un popolo e dimenticarla significa far perdere l’identità alla gente, omologarla perché non pensi. Vivere solo ne

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“La memoria storica è la saggezza di un popolo e dimenticarla significa far perdere l’identità alla gente, omologarla perché non pensi. Vivere solo nell’oggi, nella moda del presente non è, forse, un altro modo di consumare passivamente, senza possibilità di partecipare? Le proprie radici fanno un popolo vivo, evoluto, autonomo nelle scelte, perché informato e non addormentato od addirittura affogato in consumi culturali e materiali imposti.”

Mentre cercavo dei libri sono cadute per terra dallo scaffale della mia piccola biblioteca alcune fotografie; sfogliandole mi è apparso il volto sereno e sorridente di Mons. Vincenzo D’Addario, già Arcivescovo di Manfredonia – Vieste dal 1990 al 2002. Ah, mi sono detto, ci sei, ci sei stato anche Tu nella nostra città? Ricordo che la sua morte improvvisa colpì profondamente la comunità di Teramo, dove era Vescovo trasferito da Manfredonia, e di Pescara,( era nato l’8 Maggio 1942 a Pianella – Pe, dove è sepolto) ma anche tutti i Comuni dell’Arcidiocesi Manfredonia – Vieste. Ora che sono passati 7 anni dalla sua morte avvenuta il 1 Dicembre 2005, mi sono chiesto: cosa hai lasciato nella nostra città? Che ruolo hai avuto nella comunità ecclesiale e nella realtà sociale nel nostro territorio?

Per me eri veramente un pastore, senza fronzoli, con grandissima umanità e rispetto per l’altro, coerentemente a come concepivi ed hai lasciato scritto. “Il Vescovo è inviato dal Signore Gesù Cristo a prendersi cura dell’intero popolo di Dio, a presiedere la comunità ecclesiale, rappresentante della Chiesa davanti agli uomini, come segno di unità e fedeltà evangelica. Ai pastori, diceva Mons. Vincenzo D’Addario, spetta l’autorità di guidare la comunità cristiana assumendo lo stile e la sostanza di vita del primo ed unico pastore che ha dato la vita per il suo gregge”.

Sarò io il pastore del mio gregge: cercherò chi è perduto, ricondurrò chi è lontano”. E che dire allora della morte di Mons. D’Addario avvenuta all’improvviso di primo mattino mentre era in preghiera? E che dire del modo infaticabile in cui esercitava il suo ministero, trascurando anche la propria salute? “Tu che con un eccesso di generosità hai compromesso irrimediabilmente il tuo fisico; Tu sei stato chiamato in cielo durante la preghiera del mattino, quella preghiera che hai sempre recitato con la bocca ma soprattutto con la tua vita”, come recita l’omelia di Mons. Ghidelli per la Messa esequiale.

Certo era proprio così, e così Ti ricordo. Durante il tragitto Manfredonia – Vieste sempre pregavi ed, in particolare, recitavi il rosario; la cosa più sorprendente era che, delicatamente, chiedevi il permesso a chi era con Te in macchina in quel momento. E poi tante volte, nonostante lo stress della strada contorta, guidavi Tu l’auto direttamente e direttamente accompagnavi a casa il Tuo compagno di viaggio, senza formalità, semplicemente come un amico affettuoso, salutando con un sorriso quasi a dire: ciao, ci vediamo.

Questa Tua cordialità ed umanità poteva sembrare una perdita di potere e di autorità insita nel Tuo ruolo; ma Tuo era lo stile di chi, sacerdote, si preoccupa dei parrocchiani e non, se ne prende cura, è vicino a loro, si comporta con loro come un padre da stimare e voler bene e che dà l’esempio di una vita degna. E che dire del Tuo rapporto con gli anziani? Le mani che stringevano e/o accarezzavano altre mani insieme al tuo sorriso aperto era il segno dell’accoglienza piena dell’altro, della Tua capacità di ascoltare ed identificarTi con chi era in quel momento più debole. Ed i Tuoi ragionamenti ed iniziative sul ruolo centrale della famiglia, come risorsa fondamentale per rafforzare la fede e la religiosità e, contemporaneamente, la coesione sociale, non erano, forse, una strategia, una indicazione concreta per costruire un ambiente ed una vita migliore nel quotidiano, nella tua diocesi e nella tua città, Manfredonia, sede episcopale?

 

Non so se è quali difficoltà possa avere incontrato durante il suo ministero nella nostra diocesi, né so come la comunità ecclesiale ed i comuni della diocesi vorranno ricordare nel decennale del trasferimento a Teramo il suo pastore (l’aver intitolato una piazza è sufficiente?), che ha dedicato 12 anni della sua vita a guidare, a sostenere ed a rafforzare il senso di comunità nei nostri paesi. Certo avrebbe un senso e non sarebbe inutile ricordarLo e riscoprirLo con un convegno e con una riflessione pubblica sulla sua opera nel nostro territorio. A tale proposito voglio fare un breve riferimento non solo al ruolo importante avuto per la rinascita dell’Abbazia di Pulsano e, quindi, al rafforzamento di occasioni e strutture di fede e di preghiera, ma anche alla sua profonda e sentita apertura verso gli altri ed alla sua lucida e complessa cultura ed intelligenza, come testimonia l’analisi e le chiare proposte operative sulla povertà ed i poveri, fatta durante l’apposito convegno ecclesiale nel settembre 1995.

In quell’occasione Egli ebbe ad esporre una sottile e dotta articolazione di come nella lingua greca in quella ebraico – giudaica si utilizzino diversi termini per indicare i poveri; ciò al fine di evidenziare e ricostruire un legame con la storia e la memoria religiosa e, contemporaneamente, riscoprire il significato specifico, originale, innovativo e in qualche modo rivoluzionario, del povero in senso cristiano.

Cinque sono i termini greci, disse, per indicare i poveri: 1) chi non ha nulla, 2) chi non conta, 3) chi ha bisogna di qualcosa, 4) il misero, 5) l’umile, (colui che si abbassa fino a toccare la terra, letteralmente umus), è il più vicino al povero in senso cristiano. Cinque sono i termini ebraico – giudaico per indicare i poveri: 1) chi è calpestato, oppresso dagli altri, 2) chi può rispondere solo sì, non può fare domande e può solo ascoltare, 3) chi è privo dei beni essenziali per vivere, e, perciò, anche di libertà. In tal modo, poiché tale situazione è determinata storicamente, costui viene impedito di esprimere e mettere a disposizione i propri valori, 4) chi è povero socialmente ma è aperto a Dio, nei salmi, e, quindi, è pieno di fede e ricco di speranza, 5) il povero come luogo teologico cioè il dove si rivela Dio. Nel significato cristiano la condivisione del dolore e della sofferenza umana è il segno dell’ESSERE CON I POVERI.

Perché Dio sceglie i poveri? Scegliere i poveri è l’unico modo per fare uguaglianza, per essere uniti nell’umanità, poiché in tal modo ci si distoglie da noi stessi per farci cercare gli altri; quando si sceglie IL TUTTI in modo indistinto si fa disuguaglianza. (Come non ricordare e non ritrovare in queste parole Don Milani?). La stessa logica si ritrova nelle famiglie: unità nella fratellanza ed è perciò che la famiglia è risorsa centrale e globale della nostra comunità”.

E concludendo il suddetto convegno Mons. D’Addario affermò: “il problema è individuare e progettare iniziative sistematiche e continue per essere vicini e di aiuto ai poveri nella nostra diocesi, che non può fare tutto. Perciò è necessario un intervento a più mani ed a diversi livelli con varie competenze: 1) livello religioso – ecclesiale, 2) livello socio – culturale, 3) livello politico – amministrativo, 4) livello comunitario e di reti sociali, 5) livello intra ed inter – famigliare”.

Per il momento io Ti ricordo così: eri un uomo buono e Ti porto nel cuore.

(A cura del professore Silvio Cavicchia – Sociologo e ricercatore sociale del Centro Studi e Formazione “EUTOPIA)

 


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