Si avvaleva della collaborazione non soltanto di persone dall'elevato spessore criminale ma anche di gente insospettabile come il barbiere del paese,
Si avvaleva della collaborazione non soltanto di persone dall’elevato spessore criminale ma anche di gente insospettabile come il barbiere del paese, un dipendete comunale e addirittura un maresciallo dell’Esercito. Sono loro che avrebbero aiutato nella sua fuga, Giuseppe Pacilli, uno dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia, catturato lo scorso 13 maggio nella campagne di Monte Sant’Angelo. Oggi un nuovo duro colpo è stato inferto ad uno dei clan mafiosi più efferati del nostro paese. 18 i fiancheggiatori finiti nella rete della giustizia nell’ambito dell’operazione denominata “Rinascimento” ed eseguita questa mattina all’alba dagli agenti di polizia delle Questure di Foggia, Bari, degli uomini dello Sco e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo pugliese. Le accuse spaziano, a vario titolo, dal favoreggiamento, estorsione e detenzione di armi; reati aggravati dalla finalità mafiosa. Nel corso delle indagini gli inquirenti hanno accertato che i fiancheggiatori al fine di favorire la fuga del boss imponevano il pizzo a commercianti e imprenditori garganici. Un vero e proprio autofinanziamento che serviva a Pacilli per compiere i suoi innumerevoli spostamenti su tutto il territorio. Si era creata una sorta di sudditanza psicologica tra vittima e criminale, tant’è che a Monte Sant’Angelo, prima di poter aprire un’attività commerciale – dicono gli investigatori – bisognava “chiedere il permesso al boss”. “Ci troviamo di fronte a casi di “estorsioni inclusive”, cioè che avvolgevano in una fantasiosa coperta mafiosa il malcapitato di turno – ha detto il Pm della DDA Giuseppe Gatti”. “Abbiamo ascoltato l’asfalto per portare a termine l’operazione – ha ribadito il capo della mobile foggiana, Alfredo Fabbrocini. Pacilli era un latitante attento e scaltro che durante i suoi due anni di fuga non ha mai utilizzato il telefono cellulare e che cambiava ogni notte rifugio”. Oltre ai nomi storici inseriti in quella che un tempo è stata facilmente definita “faida tra pastori” come quello del pregiudicato, Giuseppe Miucci, Pacilli si è avvalso anche della fattiva collaborazione di un maresciallo dell’Esercito, Giuseppe La Torre, che sottraeva dalla mensa dei militari i viveri per il latitante; di un dipendente del comune di Monte Sant’Angelo, Michele Murgo e il barbiere del paese, Pasquale Starace. Questi ultimi due eranio una sorta di messi del crimine: materialmente erano coloro i quali consegnavano i pizzini alle vittime con le richieste estorisive. Coinvolti anche i fratelli di Giuseppe Pacilli: Tommaso e Concetta.
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